Il saggio delinea una geografia della distruzione che, dalla rovina settecentesca, approda ad uno scenario novecentesco interamente consegnato all'informe e ai rifiuti. In un crescendo desacralizzante la rovina cambia di senso, secondo uno sguardo che, non più nostalgico ma furiosamente dissettivo, da Zola a Atget, a Bellmer, a Céline, a Beckett, a Duras privilegia una vera e propria estetica del disfacimento. Un immaginario della distruzione che, mentre mette ossessivamente in scena la fine del mondo, elabora il lutto della memoria.
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